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Chiudo il tuo
libro, snodo
le mie trecce, o
cuor selvaggio, musico
cuore…
Con la tua vita intera sei
nei miei canti come
un addio a me. Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati
e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi
singhiozzando, senza mai vederci, né mai
saperci, con notturni occhi. Or
nei tuoi canti la
tua vita intera è come
un addio a me. Cuor
selvaggio, musico
cuore,
chiudo
il tuo libro, le
mie trecce snodo. Sibilla
Aleramo a Dino Campana, Mugello, 25-7-1916
In un momento Sono
sfiorite le rose I
petali caduti Perché io
non potevo dimenticare le rose Le
cercavamo insieme Abbiamo
trovato delle rose Erano
le sue rose erano le mie rose Questo
viaggio chiamavamo amore Col
nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose Che
brillavano un momento al sole del mattino Le
abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi Le
rose che non erano le nostre rose Le
mie rose le sue rose. Dino
Campana a Sibilla Aleramo, 1917
E’ tutta compresa fra queste due poesie,
presenti nel tumultuoso carteggio, l’intensa, appassionata, difficile storia d’amore
e di tormento, intrecciata alla follia, vissuta senza risparmio di emozioni,
fra gioie e dolori, botte ed insulti, separazioni e riappacificazioni, dal 1916
al 1918, dai due poeti, Dino Campana, il poeta maudit, e Sibilla Aleramo:
lui aveva 31 anni, lei 40.
Dino Campana era nato a Marradi, presso Faenza,
il 20 agosto del 1885, da una famiglia d'estrazione piccolo borghese. Dopo il
liceo, terminato faticosamente, si iscrisse alla facoltà di chimica dell’Università
di Bologna, ma, come più tardi dichiarò, non comprese mai nulla dell’astruso formulario
scientifico. E fu proprio a Bologna che uno psichiatra, per i sintomi palesati,
definiti “nevrastenia” dallo stesso poeta, gli diagnosticò “una forma psichica
a base di esaltazione”, per la quale prescriveva riposo intellettuale, isolamento
affettivo e morale e l’uso di bromuro, e che il poeta venne ripetutamente internato
in manicomio.
Manifestazione del suo disagio era soprattutto l’irrequietezza,
che lo portava spesso a viaggiare come un nomade, incapace di collocarsi in un
luogo preciso e di relazionarsi socialmente in modo stabile; per questo fu in
Argentina, in Ucraina, e poi girovago per l’Italia, esercitando i mestieri più
disparati, come il pianista, il poliziotto, il pompiere, il fabbro, l’operaio,
economicamente sostenuto anche dalla famiglia.
La sua attività poetica iniziò
nel 1912, con una pubblicazione sul “Papiro”, ma è del 1913 l’episodio inquietante
dello smarrimento del manoscritto dei suoi “Canti orfici”, affidato a Papini e
Soffici, che Campana, dopo un momento iniziale di rabbia feroce, riscrisse a memoria
e pubblicò poi a proprie spese nel 1914.
Nell’estate del 1914 esplose la passione
per Sibilla Aleramo, trasformatasi poi da “un viaggio chiamato amore” in vero
e proprio calvario.
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, era nata il
14 agosto del 1876 ad Alessandria. La sua vita era stata segnata dal tentativo
di suicidio della madre e dalla violenza sessuale subita a 16 anni, che l’aveva
costretta a sposare il suo seduttore, sopportando un matrimonio impossibile al
quale aveva trovato scampo abbandonando il tetto coniugale ed il figlio, che mai
più riuscì ad avere in custodia.
Quando conobbe Dino Campana, Sibilla, socialmente
impegnata e già famosa per aver pubblicato il romanzo autobiografico “Una donna”,
in cui definiva oppressiva e frustrante l’istituzione matrimoniale, era considerata
la donna più bella d’Italia.
Ammirata e corteggiata, libera, ardimentosa e
lontana dalle convenzioni, spesso era lei a prendere l’iniziativa con gli uomini
dai quali era attratta, in perenne bisogno d’amore, derivatole, per sua stessa
ammissione, "in parte da mia madre e in parte dalla perpetua nostalgia di
mio figlio", forse innamorata dell’idea stessa dell’amore, aveva avuto già molte
storie con letterati ed intellettuali.
La prima volta che le scrisse, attratto
dalla donna, e lusingato dal fatto che una scrittrice famosa s’interessasse a
lui, un solitario e squattrinato dalla vita simile a quella d’un barbone, e che
fino ad allora aveva avuto solo la compagnia di donne di malaffare, Dino le disse: “Non mi parli del suo impegno sociale, non mi racconti del socialismo. Mi interessa
lei. La passione e niente altro, tutto il resto è fuori, tutto il resto viene
dopo, non importa quando”.
Vogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? Se non v’annoia troppo, se non siete
troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o giovedì, col primo treno
(8,55) e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo che ci si riconoscerebbe facilmente.
Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che
bisogna ignorare"..
Affascinata dalle prime lettere scambiate con lui,
Sibilla andò da Dino, da “Cloche”, come talvolta amava firmarsi.
Lei era bellissima,
con il volto ovale, i capelli biondi, la bocca sensuale; lui aveva i capelli
tra il biondo e il rosso, la pelle rosea, i baffi spioventi su labbra carnose,
gli occhi cangianti: la scintilla scoccò all’istante e immediata fu tra loro
anche la passione fisica.
La vicenda d’amore si snodò fra alti e bassi, fra la fitta
corrispondenza, i silenzi di lui, gli allontanamenti ora dell’uno ora dell’altro,
le liti, le riappacificazioni, il peggioramento dei disturbi nervosi, le suppliche
di entrambi per una riconciliazione, gli arresti di Dino continuamente scambiato
per un tedesco, fino all’ultimo fermo, quello che lo condusse nel manicomio di
San Salvi.
Fu Sibilla a troncare la relazione con Dino, romantico, fragile,
ma anche violento, geloso del passato che lei non gli nascondeva, e instabile
(nella stessa giornata scriveva “ Cara signora, spero che lei abbia capito
che tra noi è finita” e poi, tre ore dopo, ”Amore mio, mi manchi, ti prego,
vieni da me”) e pervaso da una carica autodistruttiva alla quale lei, ansiosa
di vivere, non volle mai piegarsi. Rose
calpestava nel suo delirio E
il corpo bianco che amava. Ad
ogni lividura più mi prostravo, oh
singhiozzo, invano, oh creatura! Rose
calpestava, s’abbatteva il pugno, e
folle lo sputo su la fronte che adorava. Feroce
il suo male più di tutto il mio martirio. Ma,
or che son fuggita, ch’io muoia del suo male. S.
Aleramo Fu
davanti al cancello del manicomio che terminò definitivamente il doloroso
viaggio chiamato amore.
Scrisse Sibilla: “L’ho riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia
grata a maglia. Non ero mai entrata in una prigione. E’ stato un colloquio di
mezz’ora, i carcerieri avevan quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare
e vedendo me irrigidita”.
Scrisse Dino: ”Mi
lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre
parole non trovo. Non ho più lagrime.Perché togliermi anche l’illusione che una
volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare”.
Sibilla
era stata il primo ed unico amore di Dino, ma anche lei lo aveva molto amato;
su quell'amore la scrittrice non riuscì mai a scrivere un solo rigo, tanto grandi
erano state le emozioni fra loro, e la testimonianza di quella passione restò affidata
tutta al carteggio.
Dino Campana morì il 1° marzo del 1932 nell’Ospedale
psichiatrico di Castel Pulci, dov’ era stato internato 15 anni prima, a quarantasette
anni, probabilmente per setticemia causata dal ferimento con un filo spinato durante
un tentativo di fuga; Sibilla Aleramo morì a Roma il 13 gennaio del 1960, scrivendo
ed amando fino alla fine dei suoi giorni.
The End |
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